E’ vero che l’aumento dei tassi di interesse della BCE è più dannoso dell’inflazione?

La propaganda della destra al governo già da qualche tempo si è lanciata in invettive contro il rialzo del tasso di interesse ufficiale attuato dalla Banca Centrale Europea (BCE) per contrastare l’inflazione, accusando che sia un danno per l’economia italiana.

E’ iniziata così ufficialmente la tipica fase vittimista della destra al governo, con la ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare la responsabilità dei propri fallimenti, e non è passato neanche un anno… Evidentemente la propaganda del “va tutto bene, siamo i migliori” non reggeva più di fronte all’evidenza dei fatti che riportano un deciso rallentamento dell’economia italiana (vedi quanto scritto qui) e alle previsioni che vedono l’Italia tornare ad essere già dal prossimo anno (se non prima) il fanalino di coda per la crescita del PIL in Europa (vedere ad esempio le ultime stime OCSE).

Ovviamente, nonostante quello che dice la destra balorda (che probabilmente inizierà anche a tirare fuori teorie di un complotto contro l’Italia), la BCE non sta facendo niente di strano o di sbagliato. Il rialzo del tasso di interesse ufficiale è il tipico strumento di politica monetaria utilizzato da qualsiasi Banca Centrale del mondo per contrastare un’inflazione elevata. Negli anni ’70-’80 l’italianissima Banca d’Italia, alle prese sempre con una crisi inflazionistica causata da questioni energetiche, alzò i tassi di interesse molto più velocemente di quanto stia facendo oggi la BCE. Addirittura il tasso di interesse fu mantenuto SOPRA il tasso di inflazione per una ventina di anni, fino a quando l’inflazione non tornò su livelli normali (alla fine degli anni ’90). Per capire la situazione vedere l’articolo del grafico su inflazione e tassi di interesse.

Una politica monetaria restrittiva (alti tassi di interesse) può frenare l’economia, è normale che sia così, ma gli effetti sono solo parziali; l’economia non dipende solo da questioni monetarie. Per dire, in passato la gran parte delle Banche Centrali del mondo ha mantenuto una politica restrittiva per 20 lunghi anni, dall’inizio degli ’80 fino alla fine dei ’90, eppure l’economia è cresciuta lo stesso.

Affermare, come fa la destra al Governo, che “l’aumento dei tassi è più dannoso dell’inflazione” è ridicolo, soprattutto dal punto di vista dei cittadini. Per la gran parte delle persone l’inflazione è una tassa in più da pagare, oltretutto una tassa iniqua, perché colpisce tutti in modo uguale. L’adeguamento degli stipendi riesce solo a compensare una parte di questi aumenti. L’incremento dei tassi di interesse non solo serve a far calare l’inflazione ma serve anche a salvaguardare i risparmi delle persone, che pure quelli vengono svalutati dall’inflazione. Infatti, nessuno pare ricordarlo, ma il rialzo dei tassi di interesse riguarda anche quelli che vengono pagati ai cittadini sui depositi e vari investimenti che fanno con i loro risparmi.

Il fatto è che, anche se nessuno lo ammetterà mai apertamente, per lo Stato e il Governo mantenere un alto tasso di inflazione e bassi tassi di interesse fa comodo, perché consente di ridurre il debito pubblico in rapporto al PIL. Infatti, come detto, l’inflazione è in sostanza una tassa sui consumi (tassa impropria) pagata dai cittadini e come tale contribuisce alla crescita del PIL (il PIL nominale, quello che è influenzato dalla crescita dei prezzi). Il debito pubblico invece (sempre in termini nominali) se i tassi di interesse rimangono bassi in proporzione cresce meno (anche grazie al fatto che i tassi sui titoli più vecchi rimangono comunque invariati). In questo modo il rapporto tra debito e PIL tende quindi a migliorare.

Come detto in più occasioni, un’inflazione alta e crescente avvantaggia i debitori e lo Stato italiano è un grande debitore. Tale vantaggio però tende ad essere compensato quando la crescita dei tassi di interesse e il conseguente calo dell’inflazione creano un contesto opposto, che favorisce la crescita del debito/PIL. Con il calo dell’inflazione infatti il PIL nominale finisce per crescere meno di quanto cresce il debito per i tassi di interesse.

Tutto questo può essere spiegato chiaramente con la formula matematica che regola la variazione del rapporto debito-PIL: (I-P)/(1+P)*DPi-SP. Dove “I” è il tasso di interesse medio implicito su tutto il debito pubblico (nominale o reale); “P” è la variazione percentuale del PIL (nominale o reale); “DPi” è il debito/PIL iniziale (ovvero dell’anno precedente); “SP” è il saldo primario, ovvero le entrate meno spese pubbliche al netto degli interessi sul debito. Tale formula era stata trattata in modo più concettuale e parziale qui e in modo più dettagliato e matematico qui.

Come si vede tutta la formula è incentrata sulla differenza tra il tasso di interesse medio sul debito e il tasso di variazione del PIL. Questi due dati possono essere o entrambi nominali o entrambi reali, il risultato non cambia. In questo caso conviene considerare i valori nominali, più semplici da comprendere in termini di effetto dell’inflazione. Se l’inflazione è alta può far “gonfiare” il valore del PIL nominale (P) tanto da portarlo al di sopra del tasso nominale medio sul debito (I), che è influenzato invece dal tasso ufficiale di interesse. Un risultato ben negativo di questa differenza porta sicuramente ad una diminuzione del debito/PIL, a meno che il saldo primario non sia proprio disastroso. Da precisare che l’inflazione di cui si parla non è la normale inflazione sui consumi (indice NIC) ma un particolare indice utilizzato in modo specifico per il PIL (deflatore del PIL) che può essere un po’ diverso ma è comunque collegato al primo.

Per fare un esempio concreto: nel 2022 il tasso nominale medio sul debito (I) è stato del 3,11%. Se il tasso ufficiale di interesse della Banca Centrale cresce poco anche tale tasso nominale sul debito è destinato a muoversi poco, anche grazie al fatto che i vecchi titoli del debito mantengono i vecchi tassi di interesse per qualche anno. Grazie alla crescita dell’inflazione invece il PIL nominale (P) nel 2022 è cresciuto di ben il 6,80%, ma la crescita reale (quella di cui si parla normalmente e che è senza inflazione) è stata del 3,67%. Il PIL quindi è cresciuto di circa 3 punti percentuali in più grazie alla “tassa” dell’inflazione pagata dai cittadini. Con il risultato particolarmente negativo della differenza I-P il debito/PIL nel 2022 è calato in modo significativo (oltre 5 punti), nonostante un saldo primario ancora ben negativo.

In sostanza, mantenere un alto tasso di inflazione e bassi tassi di interesse per il Governo è un modo per far ripagare ai cittadini il debito pubblico. E’ un modo subdolo e iniquo, perché la gran parte delle persone non se ne rende nemmeno conto e perché, come detto, l’inflazione è una “tassa” che colpisce tutti alla stessa maniera, ovvero con un’incidenza proporzionale e non progressiva. Il miglioramento del debito dovrebbe avvenire con una normale politica fiscale, che rispetti i principi di equità e trasparenza.

 

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